Premessa: disposizioni in materia di residenza fiscale secondo la normativa domestica e convenzionale.
Una persona fisica è considerata residente nel territorio dello Stato allorquando per la maggior parte del periodo di imposta i) risulta iscritta nelle anagrafi della popolazione residente; ii) ha nel territorio dello Stato il domicilio; iii) ha nel territorio dello Stato la residenza[1].
Dal dettato letterale della norma emerge chiaramente che i già menzionati requisiti sono tra loro alternativi e non concorrenti, con la conseguenza che sarà pertanto sufficiente il verificarsi di uno solo di essi affinché un soggetto sia considerato fiscalmente residente in Italia.
Il requisito dell’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente associa la presunzione di residenza fiscale ad un dato meramente formale.
Diversamente, i requisiti del domicilio o della residenza, così come definiti dall’art. 43, C.c., ricollegano la residenza fiscale di un soggetto a situazioni fattuali/sostanziali.
Nello specifico, il domicilio si definisce come «il luogo in cui una persona ha stabilito la sede principale dei propri affari ed interessi».
La locuzione “affari ed interessi” di cui al citato art. 43 deve intendersi in senso ampio, comprensivo non solo di rapporti di natura patrimoniale ed economica ma anche morali, sociali e familiari. La residenza è il luogo in cui il soggetto dimora abitualmente.
Il successivo comma 2-bis del citato art. 2, TUIR, introduce un’ulteriore previsione per i soggetti che trasferiscono la residenza in Paesi a fiscalità privilegiata. La norma considera fiscalmente residenti nel territorio dello Stato italiano, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati “a fiscalità privilegiata”[2].
Lo scopo della norma, che riguarda solo i cittadini italiani, è quello di contrastare fittizie fissazioni di residenza all’estero al fine di evitare il pagamento delle imposte in Italia.
La normativa domestica appena descritta deve essere raccordata con la normativa convenzionale.
È, infatti, pacifico che in caso di conflitto tra norme interne e norme pattizie, la disposizione convenzionale prevale sulla norma interna.
Si tratta, peraltro, di un principio costantemente ribadito anche dall’Agenzia delle Entrate. La stessa, in più occasioni[3], ha sempre puntualizzato che: «Il principio della prevalenza del diritto convenzionale sul diritto interno è, difatti, pacificamente riconosciuto nell’ordinamento italiano e, in ambito tributario, è sancito dall’articolo 169 del TUIR e dall’articolo 75 del D.P.R. n. 600 del 1973, oltre ad essere stato affermato dalla giurisprudenza costituzionale».
La superiorità della Convenzione rispetto alla norma interna emerge, altresì, in diversi passaggi del commentario al Modello di Convenzione OCSE.
L’art. 4 del Modello di Convenzione OCSE, cui i trattati conclusi dall’Italia generalmente si conformano, preliminarmente al paragrafo 1, rinvia alla legislazione interna degli Stati contraenti per la definizione di residenza rilevante ai fini della delimitazione dell’ambito di applicazione soggettivo della Convenzione. Al successivo paragrafo 2 introduce una serie di criteri di collegamento (c.d. “tie breaker rules”), da applicarsi in via successiva, delegati a determinare, nell’ipotesi di conflitti di doppia residenza derivante dal concorso delle normative interne degli Stati contraenti, quale di tali Stati debba essere preferito nel considerare residente il contribuente. Tali “tie breaker rules”, in ordine di rilevanza, in caso di conflitto di residenza fra due diversi Stati, sono le seguenti: 1) lo Stato ove il Soggetto abbia abitazione permanente; 2) lo Stato ove il Soggetto abbia stabilito il centro dei propri interessi vitali; 3) lo Stato ove il Soggetto abbia stabilito la dimora abituale; 4) la nazionalità del contribuente. Quale criterio residuale, è prevista la soluzione di comune accordo tra gli Stati interessati, attraverso una procedura amichevole.
La natura “costitutiva” dell’iscrizione all’AIRE: le ultime pronunce giurisprudenziali e le novità della riforma fiscale.
L’iscrizione all’AIRE è davvero un requisito essenziale per dimostrare il trasferimento ai fini fiscali della residenza all’estero? Per la sentenza della Corte di Giustizia tributaria di I grado di Treviso la risposta è negativa.
Infatti, con la pronuncia n. 44 del 2023, i Giudici trevigiani hanno risolto un conflitto di doppia residenza, riconoscendo la residenza fiscale all’estero del Contribuente anche se quest’ultimo era proprietario di un bene immobile in Italia e risultava essere iscritto all’anagrafe dei residenti, pur non essendo iscritto all’AIRE. Secondo i giudici di prime cure, dunque, il possesso in uno Stato Estero di un’abitazione permanente, la titolarità di un permesso di soggiorno, lo svolgimento di un’attività lavorativa in tale Stato (documentata dalle varie certificazioni fiscali) e la presenza dell’intera famiglia, compresi i figli con relativa frequenza scolastica nel Paese Estero, costituiscono elementi atti a ritenere che il contribuente possa essere considerato residente nello Stato Estero essendovi dimostrata la presenza del centro degli interessi vitali, benché non risulti iscritto all’AIRE. Sempre secondo tale pronuncia, al contrario, lo stesso non può essere considerato fiscalmente residente in Italia, per la sola disponibilità nel nostro Paese di un’abitazione, a nulla rilevando, ancora una volta, la mancata iscrizione all’AIRE.
Dunque, la CGT di Treviso, in ragione del concorso di residenza fiscale tra i due Stati, risolveva il conflitto applicando le c.d. “tie breaker rules” di cui alla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia ed il Paese Estero (nel caso di specie la Rmania), sopra esposte.
La sentenza in esame conferma, pertanto, la prevalenza dei criteri convenzionali su quelli interni, con superamento, in presenza di una convenzione contro la doppia imposizione, del criterio formale dell’iscrizione all’AIRE. Tale criterio sembra essere stato superato anche da parte della giurisprudenza della Corte di Cassazione[4] e dell’Agenzia delle Entrate[5].
Tale impostazione si pone in contrasto con un precedente filone giurisprudenziale secondo cui, invece, essendo l’iscrizione anagrafica preclusiva di ogni ulteriore accertamento, il trasferimento della residenza all’estero non rileva fino a quando non risulti la cancellazione dall’anagrafe di un Comune italiano e la contestuale iscrizione all’AIRE.
Queste le conclusioni contenute nell’Ordinanza della Corte di Cassazione n. 1355 del 18 gennaio 2022[6].
Non v’è dubbio che quello del conflitto di residenza tra Stati Esteri costituisca un argomento complesso e foriero di contenzioso. L’orientamento che pare farsi strada è quello secondo cui la determinazione della residenza fiscale non può essere lasciata alla mera iscrizione del contribuente in un elenco, ma deve essere basata su elementi che di fatto portano il contribuente a dover dare atto con elementi documentali del Paese in cui si trovano il centro dei suoi elementi patrimoniali, economici e familiari prevalenti.
In tale ordine di idee si pone la Legge Delega (n. 111/2023) per la riforma fiscale, che, tra i criteri direttivi, prevede, all’art. 3, «la revisione della disciplina della residenza fiscale delle persone fisiche […] al fine di renderla coerente con la migliore prassi internazionale e con le convenzioni sottoscritte dall’Italia per evitare le doppie imposizioni».
Lo schema del decreto legislativo in materia di riforma della fiscalità internazionale, recentemente approvato[7], prevede, all’art. 1, l’integrale sostituzione del secondo comma dell’art. 2 del TUIR. Tra le principali novità vi è l’elevazione ad autonomo criterio di collegamento, accanto al domicilio e alla residenza, della “presenza fisica” nello Stato, che sarà accertata «considerando anche le frazioni di giorno».
Viene inoltre prevista, così smentendo un orientamento della Cassazione[8] in realtà mai del tutto consolidato, la prevalenza delle relazione personali e familiari su quelle economiche e imprenditoriali.
Soprattutto, con specifico riferimento alla tematica affrontata in questa sede, è previsto che l’iscrizione all’anagrafe della popolazione residente, da criterio sufficiente al fine di localizzare in Italia la residenza fiscale, qual è attualmente, degraderà a presunzione iuris tantum. Si stabilisce, infatti, che «salvo prova contraria, si presumono altresì residenti le persone iscritte per la maggior parte del periodo di imposta nelle anagrafi della popolazione residente». Tenuto conto che la modifica avviene al dichiarato fine di adeguare la legislazione interna alla normativa convenzionale, di cui è pacifica la prevalenza, non sembra peregrino sostenere che tale disposizioni, una volta definitivamente approvate, possano avere natura retroattiva e, così, influire anche sui rapporti in corso.
a cura di Cristina Rigato e Giorgia Sarragioto
per il Centro Studi Deotto Lovecchio & Partners
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[1] Art. 2, comma 2, TUIR.
[2] Individuati all’interno del D.M. 4 maggio 1999, come modificato dal D.M. 12 febbraio 2014 per l’eliminazione della Repubblica di San Marino e più recentemente dal D.M. 20.7.2023 per l’eliminazione della Svizzera.
[3] Risposte interpelli nn. 370/2023, 73/2023, 50/2023 e 255/2023.
[4] Sent. Cass. n. 29635/2022.
[5] Cfr. risp. Interpello n. 370/2023.
[6] Cosi anche per Ord. Cass. n. 16634/2018, n. 21970/2015 e n. 1215/1998.
[7] Cfr. il Dossier del servizio studi del Parlamento.
[8] V. Cass. 1.7.2021, n. 18702 che richiama il criterio del center of main interest di cui al Regolamento UE 848/2015 del Parlamento e del Consiglio, relativo alle procedure di insolvenza, che lo definisce come il «luogo in cui il debitore esercita la gestione dei suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi».