Omessa dichiarazione e riconoscimento del credito: stesse regole per Iva e imposte sui redditi?

Nonostante in materia di IVA ammetta la possibilità di riportare in avanti il credito da dichiarazione omessa, la Cassazione nega, in virtù della tassatività delle ipotesi di compensazione, che allo stesso risultato si possa giungere anche in materia di imposte dirette. Si tratta di un orientamento poco condivisibile, perché contrario al principio di capacità contributiva e alla pacifica natura della dichiarazione tributaria come dichiarazione di scienza.

 

Le due ordinanze della Cassazione del 10 ottobre 2022: la n. 29415 in tema di Iva e la n. 29416 in tema di Irpef.

Nell’ordinanza del 10 ottobre 2022, n. 29416, la Corte di Cassazione ha statuito, in un caso in cui il contribuente aveva omesso di presentare la dichiarazione IRPEF per l’anno d’imposta 2006, per poi indicare l’eccedenza dell’anno precedente nel rigo RN32[1] del modello relativo all’anno 2007, che tale omissione determina la perdita del diritto all’utilizzo in compensazione, in quanto il credito si intende mai sorto e il principio di emendabilità degli errori non può trovare applicazione.

Giova ricordare che, in materia di IVA, un’importante sentenza delle Sezioni Unite, la n. 17757 del 8 settembre 2016, sulla scorta di una puntuale esegesi degli artt. 19, 30 e 55 del D.P.R. n. 633/72, aveva affermato che l’eccedenza d’imposta può essere riportata in avanti anche in assenza di dichiarazione. La dichiarazione, si è affermato, costituisce un mero riepilogo delle operazioni attive e passive registrate e liquidate nell’anno, con la conseguenza che il giudizio instaurato contro la cartella di pagamento (legittimamente)[2] notificata a seguito di liquidazione automatizzata della dichiarazione dell’anno in cui il credito esposto costituisce la sede naturale per verificare l’esistenza contabile e l’effettività del credito maturato.

La tesi della Cassazione muove – tra l’altro – anche dalla natura di dichiarazione di scienza della dichiarazione tributaria, che ne consente l’emendabilità in sede di contenziosa per far valere errori di fatto e di diritto commessi nella sua redazione[3].

Secondo la Cassazione, tuttavia, la giurisprudenza – ormai consolidata[4] – formatasi in tema di IVA non può applicarsi anche alle imposte dirette. Solo nell’IVA, infatti, il credito «non sorge per effetto della dichiarazione iva ma per effetto della annotazione delle fatture attive e passive, nonché nelle varie dichiarazioni infrannuali presentate» (così l’ordinanza n. 29416).

In materia di imposte sui redditi, invece, la mancata presentazione della dichiarazione dei redditi ne preclude l’emersione, e quindi il riconoscimento e l’utilizzo in periodi successivi.

Il concetto generale di emendabilità della dichiarazione, allora, non varrebbe in tema di IRPEF, perché nel caso di mancanza assoluta della dichiarazione dei redditi non può parlarsi di correzione della dichiarazione: la facoltà di correzione, afferma la Corte, «non può spingersi fino a far valere crediti IRPEF, pur in mancanza della stessa dichiarazione», perché «la mancata redazione della dichiarazione esclude che possa emergere il credito vantato dal contribuente non potendo provarsi l’esistenza dell’errore commesso in sede di dichiarazione».

Sembrerebbe pertanto che i giudici di legittimità non riconoscano il principio, sostenuto anche dalla dottrina maggioritaria[5], secondo cui la dichiarazione fiscale è una dichiarazione di scienza che, come tale, non ha natura negoziale.

 

Una disparità di trattamento non giustificabile.

Di tenore esattamente opposto all’ordinanza n. 29416 è la n. 29415, pronunciata nella stessa data del 10 ottobre 2022 dallo stesso Collegio giudicante, e relativa all’IVA.

In questo caso, i giudici della Suprema Corte hanno sostenuto, in continuità con le Sezioni Unite del 2016, che l’omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA nell’anno in cui è sorto il credito non ne preclude, al verificarsi di determinate condizioni, l’utilizzo. Si ribadisce, pertanto, che «l’Amministrazione finanziaria non può negare la compensazione, pur in mancanza della dichiarazione» qualora venga dimostrata in concreto l’effettività del credito, essendo necessario attribuire rilievo agli aspetti sostanziali, relativi alla sua esistenza, e non a quelli formali.

Il punto di partenza della decisione è proprio il principio di emendabilità della dichiarazione, «mera esternazione di scienza e di giudizio, modificabile in ragione dell’acquisizione di nuovi elementi di conoscenza e di valutazione sui dati riferiti». L’ordinanza, che si segnala anche per una puntuale applicazione del principio di non contestazione[6], esamina il principio anche con riferimento alla disciplina delle dichiarazioni integrative, sia dei redditi che Iva.

In estrema sintesi, nell’ordinanza n. 29145, i giudici di legittimità hanno affermato l’emendabilità in via generale di qualsiasi errore anche se non rilevabile direttamente dalla dichiarazione, perché tale principio risulta conforme ai principi costituzionali della capacità contributiva (art. 53) e della oggettiva correttezza dell’azione amministrativa (art. 97), in quanto

«una interpretazione giurisprudenziale che non consentisse la correzione della dichiarazione darebbe luogo a un prelievo fiscale indebito»

A nostro parere, le medesime conclusioni dovrebbero valere anche per l’IRPEF e, con riferimento al riporto delle perdite pregresse[7], per l’IRES, poiché anche rispetto a tali imposte si verificano le stesse esigenze di corretta determinazione del prelievo.

Se si assume che la perdita (o il credito) maturato nel periodo precedente rifluisce come componente negativo nella dichiarazione successiva, non si vede perché in questo caso, diversamente da quanto accade per l’IVA, non si debba dare piena attuazione al principio di capacità contributiva e determinare in maniera esatta la base imponibile del tributo, prescindendo dalle omissioni di natura formale.

In altri termini, l’omessa presentazione della dichiarazione, e quindi l’omessa indicazione del credito (o della perdita), non può essere assimilata – come di fatto avviene – all’esercizio di un’opzione, come tale irrimediabile[8]. Si tratta di un comportamento sicuramente non corretto, e meritevole di sanzione amministrativa (peraltro, l’art. 1 del D.Lgs. n. 471/97 prende in esame proprio la fattispecie dell’omessa presentazione della dichiarazione senza imposta dovuta), ma che non può determinare un’imposizione ingiusta.

Tale interpretazione, già fatta propria dall’AIDC nella norma di comportamento n. 206/19, si impone anche alla luce dell’orientamento della Cassazione (sentenza a Sezioni Unite n. 8500 del 2021) in tema di rettifica dei costi pluriennali, laddove si è affermato che non è necessaria l’emissione di un avviso “senza imposta” per la rettifica delle perdite di periodo, ma che l’Amministrazione può sempre rettificare la perdita riportata nella dichiarazione degli anni successivi. Basilari esigenze di pari trattamento delle parti imporrebbero, allora, di consentire anche al contribuente di far valere nel merito, al di là degli inadempimenti formali, il credito maturato in altro periodo d’imposta: se l’Amministrazione può rettificare “incidentalmente” la dichiarazione di un anno decaduto, anche il contribuente deve essere ammesso a correggere il risultato del periodo, non corrispondente a quello realmente dichiarato.

Diversamente opinando, la negazione del credito o della perdita assumerebbe i connotati di una sanzione impropria, contraria al principio di capacità contributiva.

 

Conclusioni.

Alla luce delle argomentazioni che precedono si ritiene che, purché venga dimostrata la concreta esistenza del credito mediante la produzione di tutta la documentazione a supporto (ad es. C.U., redditi da fabbricati, oneri detraibili o deducibili), il credito IRPEF debba essere riconosciuto, in quanto il giudice e l’Amministrazione sono posti nella medesima condizione in cui ci si sarebbe trovati se il contribuente avesse presentato la dichiarazione.

Ulteriore argomentazione che permette di ritenere che il credito vada riconosciuto anche in caso di omessa dichiarazione è rappresentata dal fatto che, ai sensi dell’art. 22 comma 2 del TUIR, «se l’ammontare complessivo dei crediti di imposta, dei versamenti e delle ritenute, è superiore a quello dell’imposta netta sul reddito complessivo, il contribuente ha diritto, a sua scelta, di computare l’eccedenza in diminuzione dell’imposta del periodo di imposta successivo o di chiederne il rimborso in sede di dichiarazione». Da ciò si evince che l’indicazione del credito in dichiarazione non è un requisito essenziale per il riporto a nuovo.

Altresì si evidenzia che nei documenti di prassi dell’Amministrazione finanziaria, riguardanti sia IVA che imposte sui redditi e IRAP, risulta pacifico che anche in occasione di controllo automatizzato (non necessariamente e non solo in sede di mediazione o conciliazione) il credito venga riconosciuto, previa dimostrazione della sua concreta esistenza[9].

Alla luce di ciò, è evidente che se il riconoscimento del credito può essere effettuato dall’Agenzia delle Entrate in sede stragiudiziale o precontenziosa, tanto possa fare anche il giudice, sia ai fini IVA che ai fini delle imposte dirette.

L’orientamento espresso nell’ordinanza n. 29416 del 10.10.2022, che nega ai fini IRPEF la possibilità di riconoscimento ex post dell’eccedenza, invece ammessa ai fini IVA, appare pertanto non condivisibile e meritevole di superamento, per le ragioni espresse proprio nella motivazione dell’ordinanza n. 29415, che, correttamente, valorizza i requisiti sostanziali a scapito di quelli formali.

 

 

a cura di Stefania Duzzi

per il Centro Studi Deotto Lovecchio & Partners

 

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[1] Nel mod. Redditi 2023, l’eccedenza d’imposta risultante dalla precedente dichiarazione è indicata nel rigo RN36.

[2] Cass., Sezioni Unite, 8 settembre 2016, n. 17758.

[3] Per tutte, v. sentenza Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 13378 del 30 giugno 2016.

[4] Oltre all’ordinanza n. 29415 del 10 ottobre 2022, v., da ultimo Cass. 14 aprile 2023, n. 10057.

[5] Questo orientamento è condiviso in particolare da Falsitta, Manuale di diritto tributario, parte generale, Milano, 2020, 377 ss.; De Mita, Principi di diritto tributario, Milano, 2019, 314; Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Vol I, Milano, 2020, 151.

[6] Si afferma, in motivazione, che «l’obbligo dell’Amministrazione di prendere posizione sui fatti dedotti dal contribuente è ancora più forte di quello che grava sul convenuto nel rito ordinario, in quanto le disposizioni degli artt. 18 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e 6 della legge 27 luglio 2000, n. 212, secondo le quali il responsabile del procedimento deve acquisire d’ufficio quei documenti che, già in possesso dell’Amministrazione, contengano la prova di fatti, stati o qualità rilevanti per la definizione della pratica, costituiscono l’espressione di un più generale principio valevole anche in campo processuale». Forse sarebbe stato più corretto, dato che si è in ambito processuale, richiamare l’art. 115 c.p.c. e l’art. 23 del D.Lgs. n. 546/92, che contempla a carico della parte resistente l’onere di presa di posizione sui contenuti del ricorso introduttivo.

[7] Vi è un consolidato orientamento (tra le più recenti, Cassazione Sez. V, ord. n. 35129/22) in base al quale la facoltà di utilizzare le perdite di esercizio verificatesi negli anni pregressi, portandole in diminuzione del reddito prodotto, costituisce una manifestazione di volontà negoziale e, pertanto, non è emendabile.

[8] Contro il consolidato orientamento della Cassazione v., tuttavia, Beghin, L’irretrattabilità della dichiarazione tributaria nella matriòska degli errori, Corr. trib., 2019, 47.

[9] Circolare n. 34/E del 2012 e Circolare n. 21/E del 2013.

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