Triplice presunzione legale relativa per le società di comodo, con il contribuente che deve dare prova di svolgere un’effettiva attività imprenditoriale. È questo l’aspetto cruciale dell’ordinanza n. 26219/21 dello scorso 28 settembre, con la quale – finalmente – la Cassazione comincia a individuare qual è la prova contraria che le società non operative devono fornire avanti al giudice tributario.
In sostanza, la Corte afferma che la prima presunzione di legge è quella che individua come fatto noto gli elementi rilevanti ai fini del test e l’inoperatività della società come fatto ignoto; la seconda avrebbe come fatto noto l’inoperatività dell’ente e come fatto ignorato «l’impiego elusivo dello schema societario», il quale, a sua volta, risulterebbe il fatto noto della terza presunzione per individuare il reddito minimo.
In realtà, come da anni si sostiene, la norma delle società di comodo contempla due presunzioni legali di evasione (non di elusione), con la conseguenza che se si fornisce la prova contraria alla prima di queste, la seconda, inevitabilmente, decade. Alla prima, di «non operatività» della società, in conseguenza del mancato superamento del test o per effetto di perdite reiterate, viene infatti associata la seconda, rivolta proprio alle società non operative, per le quali entra in gioco la presunzione sul reddito minimo e sulla base imponibile Irap minima. Così che, se la società fornisce la prova della propria operatività (prima presunzione), cioè che svolge realmente un’attività economica, la seconda presunzione non può trovare applicazione.
Ad ogni modo, secondo la Corte la società deve dimostrare la sussistenza di un’attività imprenditoriale.
In sostanza, la prima prova da fornire non risulta quella delle oggettive situazioni che hanno impedito il conseguimento dei ricavi minimi (che risulta molto più circoscritta), ma quella che la società svolge un’effettiva attività economica (o dei motivi per i quali non può svolgerla) e che, quindi, non simula lo schermo societario.
Le oggettive situazioni di impedimento al conseguimento ai ricavi minimi valgono infatti soltanto nella fase preliminare amministrativa dell’eventuale interpello. Questo anche se l’ordinanza della Corte sembra evocarle (le oggettive situazioni) come possibile seconda prova contraria (che entrerebbe in gioco se non si fornisce adeguata prova alla prima presunzione di legge). Peraltro, poi la Corte stabilisce che nel caso specifico le doglianze della società ricorrente «si risolvono in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice». […]