Ft, token vari, ma anche la nuova “prospettiva” del metaverso presentano non pochi interrogativi sia sul piano giuridico che su quello – conseguente – tributario.
Partiamo innanzitutto dagli Nft (sigla di non fungible token), che in questo momento sono l’emblema della “tokenizzazione” di molti fenomeni economici. Gli Nft sono sostanzialmente dei token crittografici che incorporano un diritto su un bene generalmente digitale, ma anche – visti i vari progetti in circolazione – su beni materiali (qui con qualche dubbio sulla reale utilità).
Si può dire che gli Nft sono dei codici informatici registrati su blockchain. In termini più generali, si può attribuire agli Nft la definizione di una rappresentazione digitale – che può essere trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente – la quale incorpora un diritto su un asset non fungibile o, comunque, “scarso” (considerati, in questa ipotesi, i tanti progetti di “utilità” rivolti a un numero ristretto di persone, che comunque sembrano più facilmente accostabili a degli utility token).
In pratica, chi acquista un Nft acquista di fatto una sorta di certificato digitale inserito in una blockchain che consente di dimostrare il proprio diritto (di utilizzo, di proprietà, eccetera) su un bene, che sia digitale o meno. Occorre rilevare che il bene digitale non sta certamente nella blockchain, così come nel registro distribuito non si trovano generalmente né le condizioni del suo acquisto né i diritti dell’acquirente; nella blockchain ci sono soltanto le informazioni digitali gestibili dalla stessa.
Per gli Nft l’idea di fondo è quella di attribuire esclusività e unicità (o comunque limitatezza) a “prodotti” in gran parte del mondo digitale, da sempre caratterizzato da un’accessibilità universale ai contenuti. Gli utilizzi e le possibili implementazioni sono molteplici. Tralasciando i casi oramai famosi del primo tweet su Twitter di Dorsey a 2,5 milioni di dollari e dei 69,3 milioni di dollari per l’opera di Beeple, i maggiori utilizzi si registrano nei settori dell’arte, della musica, dello sport, dei giochi, ma anche dell’editoria. Nella musica, gli Nft sono stati venduti – si veda il caso di Mahmood – in relazione a taluni “pacchetti” che non comprendevano il solo brano musicale. Ma non solo: poiché l’Nft non è altro che uno smart contract , l’idea è quella di automatizzare la gestione dei diritti d’autore. In questo senso va l’accordo tra la Siae e Algorand per la creazione di Nft rappresentativi dei diritti degli autori associati alla Siae.
Il campo della moda – ma anche quello dei concerti (si pensi alla possibilità di occupare un determinato posto) – è quello che certamente guarda al nuovo metaverso. Infatti, alcune case di moda hanno creato e stanno creando dei capi e accessori che potranno essere “indossati” – per il tramite di Nft – nella realtà aumentata. Nel settore dell’editoria si sono avuti già il caso di un giornalista del New York Times che ha venduto il proprio Nft legato a un articolo, così come stanno nascendo progetti di riviste a tiratura limitata e con contenuti esclusivi.
Ciò che va rilevato è che non esiste un inquadramento giuridico degli Nft, e ciò vale sia per la creazione, la commercializzazione, l’utilizzo, la successiva rivendita, la tutela dei consumatori, così come risultano tutti da disciplinare gli aspetti legati alla proprietà intellettuale, diritti d’autore compreso. […]
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